martedì 14 gennaio 2014

Parsifal secondo Castellucci ovvero l'elogio di un dramma

Quanto questo Parsifal entrerà nel vivo della critica teatrale italiana, quanto e se farà scuola o tenderà a innovare il teatro d'Opera, sarà la storia dirlo.
Certo é che il Wagner secondo Castellucci, é un qualcosa da provare, un qualcosa nel quella immergersi, come ci si immerge nella meditazione trascendentale, concentrandosi su le visioni mentali che lo spettacolo offre, e annullando qualsiasi spiacevole disturbo del pensiero. La rivincita del dramma, la sublimazione della messa in scena, la magia dello stupore. Il rispetto dello spettatore, in quanto essere pensante, in quanto spirito in cerca di suggestioni, in quanto attivo e partecipe nell'assegnazione del significato.
Nel grande sipario iniziale, è impressa la storica foto di Nietsche pensante e con gli occhi sbarrati, si apre già dall'ingresso in sala, l'omaggio all'ultimo capolavoro al testamento artistico di Wagner, quasi a far comprendere subito la sacralità dissacrata, e l'eterna lotta tra sacro e profano, mentre un pitone si contorce nell'orecchio dal  filosofo ormai immerso nella pazzia, cui proprio questo Parsifal diede il la.
Il passaggio storico del pensiero filosofico in cui l'uomo che per primo volle sfidare il sacro senno, nell'affermare che Dio é morto, il filosofo che trasportò il romanticismo di Schopenhauer nella psicanalisi di Freuad e di Jung, che venne meno nel lucido pensiero, nella razionalità della logica, per cedere all'ignoto della pazzia, la conversione conclamata al cristianesimo di Wagner nel voler rappresentare il Parsifal cavaliere solitario del sacro Gral, fu un colpo intenso e logorante per il  Nietsche amico di una vita , come poteva il più grande compositore vivente cedere al potere " accasciato ai piedi della croce" cedere ad una trascendenza fasulla stereotipata dal mito di un templare.
E così già dalla lunga e intensa overture, lo spettatore é immerso nella sacralità del Parsifal. Lo spettacolo é un implosione del cosmo, una preghiera al castigo, una ricerca del senso di un limite ascetico, una critica sfiduciata all'individualismo, al post modernismo, al consumo onnivoro di pensieri e di riferimenti culturali, di bottiglie e cartacce e spazzatura che é ultima rimanenza sul palcoscenico che fu, del "modo giovane e forte odorante di sangue fertile". Una Divina commedia post moderna e scritta al contrario, in cui si passa dal paradiso con un chiaro simbolismo del Nirvana (la natura), al purgatorio ( limbo mentale di un bianco tagliente) all'inferno, (la città). Una messa in scena che riconosce a Wagner la sua caratterizzazione drammatica, unico -tra i grandi- compositore e scrittore dei libretti delle sue opere, gli riconosce la potenza della messa in scena, l'introspezione psicologica, di cui il compositore fu precursore anche della psicologica stessa, gli riconosce una lettura più elevata, che va ben oltre la conversione al cristianesimo - le croci sono le grandi assenti dello spettacolo - volgendosi direttamente verso il cosmo in chiave buddista o taoista, riconosce del testo il sacro quanto il pagano, in cui per molti secoli anche il sacro calice é stato visto

La natura iniziale florida e in movimento, di luce investita, accoglie il primo atto, i personaggi sono natura, sono alberi piante, nirvana allo stato primitivo, Kundry elemento stridente in bianco aureo si aggira nella foresta come una particella di energia, Ermenide e Maddalena al contempo, ne rappresenta l'essenza. Tutto è destinato a implodere nel buco nero della ferita inguaribile del mondo, tutto - sapientemente rappresentato in un'arte  scenica sublime - si intensifica a tal punto da svanire, mentre urla il suo dolore Hamfortas strappandosi i tessuti, fino alle ossa, e ancora oltre, fino al nero iniziale, rappresentando la natura che si riprende se stessa, priva il mondo della sua luce e svanisce nel nulla. 
Emerge solo nel secondo atto l'estetica della Societas, seppur trattenuta nella sua espressione di pura fisicità squarciata nelle più conosciute e classiche rappresentazioni di Castellucci, l'estetica del subcosncio emotivo, emerge, e sembra avere pasoliniani influssi, quelli di "Salo e le 120 giornate di Sodoma", appesi i corpi nudi  delle donne trascinate a atterra e legate e girate vorticosamente, quasi a rappresentare il castigo del peccato, mentre Kundri con il braccio avvolto di un pitone, rimanda al peccato nella sua prima rappresentazione di donna e di serpente, il limbo della mente e della psiche è rappresentato da una distorta e sovraesposta  visone, il dubbio è immerso nella luce. Il bacio di Kundry avvolgerà Parsifal dandogli la consapevolezza e la trascendenza, la sopraffazione del desiderio, la castità aurea del non dover cedere e di imporsi e limitarsi nel ricercare un ascetica redenzione. La luce de secondo atto sfocerà nel buio inteso del terzo atto fatto nel deserto metropolitano, in fila e in viaggio andando costantemente avanti senza meta, senza domande ne tantomeno risposte, un credere senza se e senza ma, una religione individualista, fatta di miti effimeri, cemento, folle, crudeltà del post moderno, incomunicabilità, assenza.

Tutto questo è il Parsifal secondo Castellucci.


Va dato merito a chi (il direttore artistico del Teatro Nicola Sani e l'assessorato alla Cultura di Bologna Alberto Ronchi) per la prima volta porta in un Teatro d'Opera italiano, una vera e forte innovazione del linguaggio, dando vigore e  non limitando le visioni degli artisti, l'Opera italiana, ha un enorme bisogno di questo tipo di esperimenti, la messa in scena di Catsellucci, è anni luce dalle pur molte e spesso insignificanti chiavi di lettura contemporanee, dei registi alla Micheletto che non si impongono con sufficiente spessore ai grandi titoli che vanno a rappresentare. Con Parsifal il Regista, entra a pari titolo nella lettura di un Opera epocale, non ha timidezza, ha rispetto e riverenza, ma è in primo piano, non ha tremori e paure nel poter dire quello che sente.
Altre messe in scena come la Carmen di Emma Dante messa in scena alla Scala, avrebbero potuto avere la stessa riuscita, perché avevano le stesse condizioni di partenza, ma "non si può normalizzare Emma Dante" come è successo alla Scala, e Castellucci non sì è fatto normalizzare, forse perché lo spettacolo nasce nel 2011 a Bruxelles sostenuto Frie Leysen personalità tra e più importanti del teatro europeo direttrice del Kunsten Festivaldes Arts e del Theater der Welt 2020/Ruhr. Aspettiamo con ansia altre scelte di questo tipo, magari con produzioni che nascono italiane, e  delle quali l'Italia molto avrebbe da spendere, vista la buona presenza di compagnie di innovazione e ricerca teatrale (molte delle quali legate al Festival Sant'Arcangelo Teatri), che piuttosto che andare alla disperata ricerca di sostegni per sopravvive, dovrebbero essere portate sulla ribalta dei grandi teatri, per poter finalmente rinvigorire un panorama teatrale classico, che arranca e manca di creatività.

Renè Valenzia